Intervista a Francesco Tonucci


16.11.12

A volte la vita ci concede, così, senza meritarlo, dei regali meravigliosi dalle cose o dalle persone più inaspettate.  Quando succede ci sentiamo graziati, in debito con qualcosa o con qualcuno che non conosciamo ma al quale siamo riconoscenti.  Lo chiamiamo "privilegio", anche se mi sembra che questa semplice parola non riesca a descrivere l'onore e la gratitudine che i genitori e le maestre della nostra scuola sentiamo nei confronti del proff. Francesco Tonucci.


la Macchina della Scuola.  Frato

Nato a Fano, Francesco Tonucci è un pedagogo e disegnatore (con il pseudonimo "Frato") di lunga traiettoria.  Si è laureato in Pedagogia all'Università Cattolica di Milano. Dopo la laurea ha lavorato come maestro elementare, e nel 1966 è entrato come ricercatore all'Istituto di Psicologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) dove dal 1982 è stato responsabile del reparto di Psicopedagogia. 
Le sue ricerche vertono intorno allo sviluppo cognitivo del bambino, allo studio del pensiero e del comportamento infantile, al rapporto tra sviluppo cognitivo del bambino e metodologie educative. Da molti anni si occupa del rapporto tra i bambini e la città, cui ha dedicato il progetto La città dei bambini, sul quale ho scritto questo post varato nel 1991 nel Comune di Fano, dando vita ad un laboratorio che considera un modo nuovo di pensare la città assumendo il bambino come punto di riferimento. 
Ha pubblicato numerosi libri sulla pedagogia e per bambini, tra i quali:
La città dei bambini, 1996, Bari, Laterza; Guida al giornalino di classe, 1980, Bari, Laterza;   La valutazione come lettura dell'esperienza, 1978,Bologna, il Mulino;   A tre anni si fa ricerca, 1976, Firenze;   La ricerca come alternativa all'insegnamento,1972, Firenze, LEF; La solitudine del bambino; Edit. La Nuova Italia, 1995; Se i bambini dicono;  adesso basta!; Edit. Laterza, 2003;
Il paese dei quadrati; Edit. Orecchio Acerbo, 2006;  Il paese dei cerchi; Edit. Orecchio Acerbo, 2003; Con gli occhi del bambino (Milano 1981), Bambini si nasce (1987); Bambini si diventa (1989).

Questo personaggio di notevole prestigio offre alla nostra scuola  (la scuola con maggior indice di bambini extracommunitari di Roma, circa il 90%) la sua esperienza come docente e ricercatore raccontata in una serie di incontri che, da due anni a questa parte, vengono ad arricchire il bagaglio di conoscenze di insegnanti e genitori con le sue visioni poco "tradizionali" del mondo della scuola.  Così ho consociuto, e ne sono rimasta fervorosa ammiratrice, Francesco Tonucci.  

Ieri a scuola, prima dell' incontro che apre il nuovo ciclo per quest'anno, mi ha gentilimente concesso un'intervista per Kid's Modulor.  Sarà la prima di una serie.  

Preparatevi un bel thè e buona lettura!.





1.  E’ importante la bellezza negli ambienti e negli oggetti destinati ai bambini, perché?.


La risposta è ovviamente positiva.  Naturalmente c’è anche un margine aperto su cosa significa bellezza per noi e bellezza per i bambini.  Per esempio, i bambini di Fano, quando ho chiesto se piaceva loro l’esperienza di andare a scuola da soli dicevano:”andare a scuola da soli è bello però le strade devono essere belle”.  Allora, cosa vuol dire per i bambini che le strade devono essere belle?. Probabilmente che le strade siano interessanti, che ci siano dei negozi aperti, che ci siano delle cose da vedere, che è un po’lo stesso criterio con cui noi valutiamo se vale la pena o no, per esempio, di passeggiare in un luogo.  Non passeggiamo normalmente nelle nostre periferie.  Uno quando dice:  “vado a passeggio” pensa di prendere la macchina, andare verso il centro e poi passeggiare dove c’è da vedere delle vetrine, delle cose.  Quindi questa è la bellezza dei posti.  I bambini, per esempio di Buenos Aires, parlando sulla sicurezza dei posti dicevano:”le strade non devono essere mute”.  Loro parlavano anche della possibilità di sentire musica per strada, però credo che anche possa voler dire “non mute perché ci sia la gente”, cioè che non siano abbandonate, che non siano solitarie.
Per la questione invece della bellezza degli oggetti qui entriamo in un campo più delicato, direi, perché c’è il problema della fantasia da parte dei bambini.  E allora gli oggetti diventano belli nell' uso che ne fanno i bambini, cioè diventano "altro".  La famosa scopa che diventa un cavallo, il bastone che diventa una spada e, l’esempio più clamoroso,  la creta che diventa tutto, perché è un materiale duttile che si presta alla trasformazione.  Allora nel gioco dei bambini credo che sia un equivoco quello di “preparare delle cose già belle di per sé” perché tolgono la possibilità di renderle belle da parte dei bambini, nel senso che tolgano spazio alla fantasia, tolgano spazio all’invenzione.  
Per definire un giocattolo bello o brutto a me piace usare la creta come parametro.  Per cui diventa bello un giocattolo che può diventare tante cose o può fare tante cose.  Allora, per esempio, la palla è un bel giocattolo perché si presta a molti usi, la bambola è un bel giocattolo perché può dire molte cose, può fare tutto quello che il bambino o la bambina vogliono che faccia:  La bambola diventa figlio, maestra, madre, buona o cattiva, quindi può essere la proiezione:  lei fa la madre e punisce la bambola-bambina, oppure la bambola-bambina è la maestra che le insegna le cose.  Di fronte a questo giocattolo, che in genere è molto semplice, (può essere anche di pezza, o può essere una barbie) quando la bambola diventa bella, secondo un criterio adulto, e sofisticata, per esempio: parla, già diventa più povera come giocattolo perché non fa più tutto quello che vuole la bambina o il bambino ma fa quello che sa fare.  Dice quelle quattro o cinque frasi, e quindi è una bambola povera.  Povera perché sa fare solo quello.  Non è un caso che spesso i bambini disattivano questi meccanismi per poterla riutilizzare come va utilizzata una bambola.  Un esempio molto clamoroso è il Lego.  Il Lego è un bellissimo giocattolo perché è molto simile alla creta.  E’ un modulo, un mattoncino che può diventare tutto.  Però la Lego tradisce la sua natura quando mi vende una scatola per fare l’ambulanza.  Allora questo materiale, flessibile, duttile, diventa invece pezzi di una sola, possibile costruzione. L’unico scopo di quest’operazione  è di venderne di più.  
Credo che un discorso abbastanza simile si può fare sugli arredi.  Io credo che sarebbe bello che un bambino potesse partecipare ad arredare il suo ambiente, usando anche materiali semplici ma sui quali si può intervenire insieme a lui:  dipingerli insieme, modificarli, ecc,  in modo che poi non sia neanche difficile cambiarli nel tempo.  E’ abbastanza triste vedere questi spazi per i bambini, per esempio le camere, che rimangono fino all’adolescenza di bambini di quattro o cinque anni. Prima c’era la culla, poi si arreda uno spazio per un bambino piccolo e poi, siccome non è che le famiglie hanno poi tutte queste risorse per cambiare i mobili man mano che i bambini crescono,  si finisce per arrivare all’adolescenza con una camera da bambino piccolo, per cui è anche poco piacevole.

2.      Secondo lei se i bambini vivessero in ambienti “pensati” per loro crescerebbero meglio?

Dunque io ho sempre avuto un po’ di difficoltà ad accettare che i bambini vivano in un mondo a misura di bambino.  Il bambino vuole crescere, quindi vivere in un ambiente che è di tutti è una spinta a crescere.  Questo naturalmente, però, deve permettere a lui di non essere succube dell’ambiente stesso.  Ci sono anche delle possibilità. Ci possono essere dei banchetti, dei tre piedi per permettere al bambino di raggiungere certe cose.  
Questo in generale.  In specifico, però in molti casi, è solo una cattiveria che le cose siano a misura dell' adulto e non del bambino.  Parlo, per esempio, delle maniglie, degli interruttori, che se sono bassi vanno bene per tutti.  Un esempio di questo l’ho sempre pensato per i telefoni.  Io sono senza cellulare e quindi ancora vivo e conosco il mondo dei telefoni pubblici.  Una volta nelle stazioni c’era una fila di telefoni pubblici per adulti, e poi c’en’era una bassa, che era per handicappati ( non era per bambini), e mi è sempre sembrata una volgarità questo fatto.  Non capisco perché non erano tutti bassi uguale.  Perché se io devo fare una telefonata con un telefono che, invece di essere a 1,20 m, è a 80 cm da terra non ho nessuna difficoltà. Certo, se dovessi mettermi in ginocchio per fare la telefonata sarebbe un'altro problema.  Ma  a un’altezza ragionevole per una persona che sta in seggiola a rotelle o per un adulto è la stessa cosa, quindi la potremmo utilizzare tutti senza dire: “tu sei handicappato, vai in fondo”.  
Molto spesso le case, penso anche gli ascensori, le cose, sono organizzati in maniera che non sono per tutti.  Allora che l’interruttore stia, per esempio, a 70 cm da terra (adesso non ho precise le misure)  per noi adulti non è un problema.   Noi non abbiamo difficoltà ad accendere la luce abbassando la mano piuttosto che alzandola.  Certo, bisogna arrivarci, non bisogna metterlo a 30 cm. da terra. Dietro c’è, secondo me sempre  il timore che i bambini non sappiano utilizzare correttamente le cose.  C’è una grande sfiducia nei confronti dei bambini. 
Quindi da una parte direi che non mi sembra ragionevole che in casa io abbia un tavolo piccolo dove sta il bambino piccolo, mentre noi mangiamo sul tavolo grande. Preferisco che ci sia il seggiolone, preferisco metterli un cuscino sotto la sedia, cioè, adattare, aiutarlo, accompagnarlo nella sua crescita vivendo in un mondo di adulti.  


Frato.
Normalmente il fatto che il bambino vive in un mondo di grandi vuol dire che il grande lo sostituisce o gli fa lui le cose, per cui lo prende in braccio e lo lava.  Mi sembra molto più carino avere un tre piede, un due gradini, un tre gradini, dove il bambino sale e si lava, però sapendo che poi quando sarà più grande non avrà più bisogno dei tre gradini.  Poi lo stesso  papà o la mamma lo usano per andare al soppalco o per raggiungere il ripiano più alto della libreria.  Non è che è solo lui che ha bisogno di protesi, ne abbiamo bisogno tutti quando andiamo a misure che ci superano.  Quindi: vivere in un mondo che tenga conto delle sue necessità, e gli dia delle soluzioni che tengano conto della necessità della sua autonomia.  Questo è un tema a cui io tengo moltissimo:  cioè che il bambino possa godere della massima autonomia possibile il più presto possibile.  Anzi, da sempre,  commisurata alle sue possibilità.  


E perché l’autonomia e così impostante?

L’ autonomia è importante perché è lo strumento della crescita.  Per esempio, il ciclo della cacca, così detto, è tutto basato sull' aspettativa dell’autonomia.  Siccome questo crea nell' adulto una grossa servitù  (pulirlo, lavarlo, ecc) c’è una forte aspettativa che il bambino sia capace di usare il water come noi adulti, perché quello per noi è un momento di sostanziale liberazione dei fatti.  Ora più o meno allo stesso modo  si crea un’aspettativa per il mangiare:  che il bambino, dal biberon  all’essere imboccato, arrivi presto a mangiare da solo.  E in genere si ha una bella pazienza e tolleranza nell' accettare che il bambino quando comincia a mangiare da solo si mette la pappa nel’orecchio, o sugli occhi, o ce lo tira addosso, perché diventa poi un gioco. Però è un gioco nel quale l’obbiettivo è che poi lui sappia fare da solo.  
Questo processo dovrebbe valere per tutti gli ambiti.  Per cui oggi sul discorso, per esempio, dell’uscire di casa si sta facendo un disastro perché le autonomie di movimento dei bambini sono praticamente scomparse.  Negli anni settanta le ricerche ci dicono che il numero dei bambini che andavano a scuola da soli era il novanta per cento; venti anni dopo, negli anni novanta, sono il 10% e venti anni dopo, nel 2010, da ricerche a cui abbiamo partecipato anche noi, risulta che non superano il 5 o 6%.  Siamo praticamente alla scomparsa dell’autonomia di movimento.  Questo è un elemento molto grave perché se il bambino non può uscire di casa da solo non può giocare.  Non può conoscere il mondo con le sue capacità e dal suo punto di vista perché lo percorrerà sempre accompagnato da un adulto e quindi senza la possibilità di vivere certe esperienze, ecc, ecc.  
Allora cosa vuol dire che l’autonomia è importante e deve cominciare da subito?.  Vuol dire che da quando si taglia il cordone ombelicale tutti i giorni dovrebbe essere verificato che il bambino è diventato un po’ più autonomo e noi un po’ meno necessari per lui.  Quindi c’è questo gioco duplice del rendere il bambino autonomo, e renderci noi autonomi da lui.  Il successo di questo processo sarà quando il figlio o la figlia se ne andranno di casa, che dovrebbe essere una grande festa perché è l’esame finale di tutto il nostro lavoro educativo.  Se un figlio o una figlia se ne vanno presto e contenti vuol dire che siamo stati dei buoni genitori.  Questo deve succedere sempre. Vuol dire, per esempio, che meglio di metterlo in un box è metterlo su una coperta, perché dal box non si esce ma dalla coperta si, e costa meno.  Vuol dire che quando un bambino ha un anno, un anno e mezzo, possa uscire di casa per bussare la porta vicina, dove sta un'altro bambino e giocare tutti e due nel pianerottolo, di fatto con due porte aperte, come se stessero in casa ma non stanno in casa, stanno fuori. E poi quando passano i mesi approfittare delle scale per giocare con i bambini della stessa scala, e poi utilizzare il cortile se c’è un cortile, e poi utilizzare il marciapiedi, e poi utilizzare il parco, e poi utilizzare la piazza.  
A questo punto il problema grosso diventa “come” e “se” la città accetta che i bambini la invadano, la utilizzino.  La città, invece, si difende dai bambini e li mette nei giardinetti che sono spazi del tutto inventati, recenti e assolutamente incompatibili con la necessità di gioco del bambino.  Sono spazi dove i bambini vanno sempre accompagnati, che rimangono sempre uguali nel tempo e che hanno dei giochi suggeriti come se i bambini non fossero capaci di giocare.  Sono posti molto poveri da un punto di vista dello stimolo.  Sono orizzontali, sono privi di vegetazione, di diversità.  C’è dietro un’idea del gioco come una esperienza molto banale: che il giocare è oscillare nell’altalene e scivolare dallo scivolo, o arrampicarsi in queste strutture che caratterizzano i giochi,  poco di più.

3.  Oramai siamo più o meno tutti d'accordo sull'importanza del gioco come strumento formativo ed educativo per i bambini.  Abbiamo creato dal secolo scorso a questa parte una miriade di oggetti e mobili, più o meno riusciti, che si propongono ai bambini in senso ludico.  E' questa, secondo Lei, la risposta giusta a questa esigenza?, altrimenti che ruolo deve avere “il gioco” nella crescita, come possiamo dargli spazio dentro e fuori casa?


      Qui ci sono almeno due cose da dire.  Uno è che il periodo di crescita, senza dubbio, più grande di tutta la vita di un uomo o una donna sono i primi giorni, mesi e anni.  La curva dello sviluppo comincia a crescere con la nascita e non aspetta i sei o sette anni quando si pensa che arrivi l’età della ragione.  Quindi lo sviluppo più grande di tutta la vita lo si ha prima di entrare a scuola.  Le basi, le fondamenta di tutto quello che si imparerà dopo si mettono nei primi giorni, mesi e anni di vita.  Lo strumento fondamentale di questa costruzione è il gioco (perché non ci sono ancora studio, libri di testo, maestre).  Naturalmente dando al termine "gioco" un significato ampio che inizia col giocare con il seno della mamma o con i suoi occhi,  continua giocando con il proprio corpo e con tutti gli oggetti che capitano a portata di mano e poi esplorando lo spazio.  In questa operazione, sulla quale presto s’innesta tutto il processo creativo dell’invenzione, della fantasia, gli oggetti hanno importanza.  
      Il gioco viene tradito quando non viene permesso,  quando non è possibile al bambino uscire da solo di casa, non gli è possibile trovarsi un’amica o un amico per giocare, stabilire le regole del gioco da fare, scegliere un luogo adatto a quel gioco (quindi non il solito giardinetto di tutti i giorni) e dedicare il proprio tempo libero.  Il problema è che da una parte si sono tolte le possibilità operative. Quando mi dicono: “no, ma i bambini di oggi giocano molto di più di prima perché li accompagniamo tutti i giorni a giocare al parco”, il problema è che non si può accompagnare uno a giocare.  A giocare bisogna lasciarlo andare.  Il verbo giocare non si coniuga con verbi come accompagnare, vigilare, controllare, ecc.  L’altro problema è che in genere si dice:  “Sono fortunati, hanno molte più possibilità di giocare perché ricevono tanti giocattoli, sono pieni di giocattoli”.  Questa è un’altra contraddizione:  Il giocattolo non è indispensabile per giocare, perché, ripeto, il bambino gioca anche di fantasia e d’invenzione, ma quando c’è e quando è utile, deve essere poco e deve essere “buono” (nel senso che dicevo prima, cioè, un giocattolo è buono quando permette di giocare tanto e di giocare con tanti, in tanti modi, con varie persone, ecc).  E ripeto, i giocattoli simbolo, come la palla, la bambola, la creta, le costruzioni, le macchinine, sono tutti ottimi giocattoli.  Quello che oggi succede è che noi stiamo invadendo lo spazio e il tempo dei bambini di giocattoli. Giocattoli molto costosi spesso perché vengono utilizzati per pagare un debito.  
      Il  rapporto con il giocattolo è un rapporto delicato.  Io sono convinto che sarebbe bene che i bambini avessero molto meno giocattoli e potessero giocare di più. Quindi meno giocattoli, più tempo e più autonomia.  Queste sono, credo, le caratteristiche per poter giocare.  Il bambino gioca con altri bambini non con dei giocattoli. Gli adulti dovrebbero fare parecchi passi indietro: meno giocattoli, meno corsi pomeridiani, più tempo libero, meno compiti a scuola e la possibilità di muoversi di più con libertà nella loro città.

4.  Perché i bambini preferiscono una scatola di cartone a un oggetto di design?. 

      Per queste stesse ragioni.  La scatola di cartone assomiglia di più alla creta.  La scatola di cartone diventa una macchina, una casa, un cappello, una barca.  Io ho vissuto tutta la mia infanzia con le scatole.  Mio padre era infermiere ed io ero bambino nell’immediato dopoguerra.  Noi i giocattoli non gli abbiamo mai conosciuti.  Se ne vedeva forse uno all’epifania, per i re magi, ma, insomma, era raro.  Non esistevano compleanni. Cioè, esistevano i compleanni ma si festeggiavano con un dolce che preparava la mamma.  Non c’erano inviti, si faceva in famiglia. E quindi i miei  giocattoli erano le scatole delle medicine.  Da quella volta ho sempre avuto una passione per le scatole, c’ho la casa piena. E vedo che ancora adesso, Nina, la mia nipotina, si diverte a fare delle cose con le scatole.

5.       Quale spazio o oggetto destinato ai bambini dovrebbe essere ridisegnato?


     Non lo so, non c’ho mai pensato.  Io non credo che i bambini abbiano questa esigenza.  I bambini sono loro che ridisegnano la realtà perché la usano secondo le loro necessità.  Per loro un tavolo va bene così perché in tanto ci vanno sotto e diventa una tenda.  Non mi sembra che sia corretto l’idea:  “siccome i bambini usano il tavolo come tenda gliela facciamo a forma di tenda”.  Avremmo tradito il loro bisogno, perché solo in quel momento gli serve come tenda, dieci minuti dopo gli serve come fortino o come tavolo. Per cui quando li abbiamo dato una caratteristica eccessiva facciamo l’errore che facciamo con i parchi gioco, cioè, gli diamo noi dei giochi da fare e la sua necessità di giocare si fossilizza in quelle nostre poche indicazioni, impoverendola. 

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Ringrazio il proff. Tonucci per la sua aperta disponibilità, e personalmente per la sua lucida visione del mondo dell'infanzia che, senza banali compromessi, restituisce ai bambini quello che gli appartiene.







2 commenti:

  1. Bellissima intervista Adriana, mi hanno molto colpito i passaggi sulla bambola e sull’andare a scuola da soli (ricordi di infanzia). Sono completamente d’accordo sulla sterilità dei parchi giochi e mi fa tristezza pensare ai giardini delle scuole dell’infanzia pieni di altalene, scivoli, casette ecc. Quando ero piccola, nel giardino dell’asilo, si raccoglievano le piastrelle colorate di un marciapiede ormai in stato di degrado, e queste diventavano mille giochi; mentre ricordo che nel giardino della scuola vi erano soltanto alberi, che diventavano all'occorrenza: il gioco dei quattro cantoni, oppure le porte di un campo di calcio. Ciao a presto. Emanuela

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  2. Grazie Emmanuela, mi fa piacere che ti sia piaciuta. In effetti le parole di Tonucci sono sempre toccanti proprio perchè ti riconosci sempre in esse. Dietro di loro trovo sempre un grande amore e rispetto per i bambini. A presto, Adriana.

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